
“Il manoscritto nella bottiglia”, ovvero Schönberg è vivo
Una breve introduzione a cinquant’anni dalla morte
Alcuni mesi dopo la morte di Arnold Schönberg avvenuta a settantasei
anni di età a Los Angeles, apparve un breve pamphlet
firmato dall’allora giovanissimo Pierre Boulez, dal titolo
“Schoenberg est mort” [Schönberg è morto]. La frangia più
radicale dell’avanguardia post-weberniana prendeva le distanze
dal padre, ne riconosceva l’importanza per avere compiuto il
salto decisivo con il distacco dalla tonalità ma ne liquidava
l’operato come un fallimento e “il fallimento – scriveva
Boulez – è tempo che venga neutralizzato”. A cinquant’anni
dalla morte di Schönberg abbiamo forse gli elementi per
riflettere meglio sulla reale portata di questa ipotetica
sconfitta e di stabilire cosa sia effettivamente rimasto oggi di
un’esperienza artistica tra le più straordinarie dell’epoca
moderna. Tuttavia per capire fino in fondo il significato
dell’opera schönberghiana è necessario partire dalle origini,
dalle radici della sua stessa cultura musicale, scopriremo così,
in questa breve introduzione, che proprio lo sguardo al passato,
il confrontarsi con la tradizione nasconde in realtà la chiave
per accedere alla comprensione di quegli elementi che scatenarono
la nascita di ciò che è passato alla storia con il nome di
“nuova musica” [Neue Musik].
“Essere riconosciuti dopo la propria morte!…” fu l’amara previsione
di Schönberg in occasione dei festeggiamenti per il suo
settantacinquesimo compleanno. La consapevolezza della “scomodità”
e dell’impopolarità delle proprie scelte fu una costante della
parabola umana ed artistica del compositore così come la certezza
che la sua musica fosse destinata ad essere compresa solo dalle
generazioni successive. Se si guarda la storia della musica, però,
Schönberg sembra essere in ottima compagnia, con lui si rinnovò
il destino che afflisse molti compositori prima di lui: da Bach a
Schubert, da Beethoven a Mahler non sono rare le fatali
incomprensioni per autori grandissimi da parte dei loro
contemporanei. Diversi i motivi, assai spesso comune lo sfondo
socio-culturale costituito dalla città di Vienna. Luogo
affascinante e ricco di fermenti innovativi e al contempo baluardo
del più tenace immobilismo artistico (e non solo artistico), la
capitale dell’Impero Absburgico divenne dalla fine del
Settecento anche la capitale della musica borghese, il crogiolo
capace di elevare il proprio “dialetto” musicale (la
forma-sonata) a linguaggio universale della “musica assoluta”.
Ma in quella stessa Vienna il corpo di Mozart sarà gettato in una
fossa comune, Beethoven vi trascorrerà gli ultimi dieci anni
della sua esistenza nella totale incomprensione, Schubert morirà
poverissimo tra il disinteresse generale, Schumann ne fuggirà
definendola “deserto di pietra”, Bruckner vi verrà quasi
deriso e Mahler appena sopportato quando non apertamente
osteggiato. Tuttavia il dogmatismo ed il conservatorismo che
allora dimoravano a Vienna – caratteri che anche oggi sono sotto
gli occhi di tutti – e ne informavano le principali istituzioni
musicali non impedirono, ed anzi in un certo senso favorirono, la
nascita di quelle correnti capaci di dare un’impronta
determinante agli sviluppi più progressivi del pensiero e
dell’arte. La “rivoluzione copernicana” operata da Schönberg
e dalla sua scuola sul linguaggio musicale poggia le sue basi in
questo ambiente straordinario e contraddittorio da un lato
fermamente ancorato alla tradizione dall’altro capace di
coltivare in seno rivoluzioni profonde in ogni campo del sapere.
Il dolore per l’incomprensione delle sue opere che accompagnò
tutta la vicenda umana ed artistica di Schönberg non scosse mai
l’inflessibile desiderio di dire “quelle cose che dovevano
essere dette”, la ricerca di una dimensione autentica che
compendiava ed insieme superava tutta la storia della musica
borghese. Difficilmente si ricorda un autore così osteggiato, così
discusso, così apertamente contestato come fu Schönberg dai suoi
contemporanei. Ed è questo il primo aspetto davvero centrale
della sua figura di artista: l’aver anteposto ad ogni
compromesso un “dover essere” di rara integrità a costo della
rinuncia alla piacevolezza estetica, alla moda del momento, al
godimento fine a se stesso e probabilmente al successo. Tuttavia
alle fortissime ragioni etiche Schönberg non disgiunse mai un
altrettanto rimarchevole volontà costruttiva, demiurgica. In ciò
risiede uno degli caratteri più significativi dell’esperienza
schönberghiana e cioè il fatto che questi due aspetti si nutrono
l’uno dell’altro, raggiungendo quasi una forma di identità
che non ha precedenti nella prassi artistica e che in campo
musicale costituisce forse il più alto tentativo di conciliazione
tra etica ed estetica. La coscienza soggettiva determina le scelte
del compositore sia sul piano della poetica che su quello della
tecnica musicale dettando anche l’estrema decisione
dell’abbandono della tonalità e determinando quella rivoluzione
dei canoni compositivi classici e romantici le cui conseguenze si
ripercossero su tutta la musica successiva. Dopo il 1951 qualsiasi
compositore consapevole è obbligato a fare i conti con Schönberg,
a confrontasi con le sue scelte radicali e dunque a prendere
posizione rispetto alla problematicità dell’atto stesso dello
scrivere musica nella nostra epoca. Da
questo punto di vista una cosa è stata rilevata da più parti ed
è, si può dire, oggettivamente certa: la posizione di Schönberg
all’interno della musica occidentale è paragonabile soltanto a
quella di Johann Sebastian Bach. Entrambi
i compositori infatti hanno sconvolto i fondamenti della musica
loro precedente e hanno messo le basi per un nuovo linguaggio
musicale. Bach liquidò il sistema polifonico antico fondato sui
modi e dimostrò la superiorità e la maggiore duttilità del
temperamento equabile. Duecento anni dopo Schönberg fece lo
stesso con il sistema armonico-tonale, dapprima elaborando un
linguaggio che venne chiamato “libera atonalità” (ma che egli
preferiva fosse chiamato “pantonale”), la cui regola
fondamentale consisteva nel “divieto della consonanza” e, in
una fase successiva, dopo il 1920, perfezionando il “sistema di
composizione con dodici note in relazione soltanto tra loro” che
venne poi denominato dodecafonia [Zwölftontechnik].
Ma con Bach Schönberg condivide anche il ritorno ad un’esigenza
oggettiva che consistette nell’abbandono del sentimento e
dell’espressione come finalità del comporre. Il soggetto torna
a dominare la tecnica, a stabilire regole e disciplina e, in
questo modo, ad appropriarsi della configurazione oggettiva della
musica.
Che Schönberg fosse un innovatore è riconosciuto da
tutti i manuali di storia della musica, tuttavia assai di rado
viene messo in evidenza che lo fu in misura tanto grande quanto
maggiore fu il suo debito nei confronti della tradizione. Diviene
pertanto fondamentale chiarire in che modo Schönberg fu legato al
passato ed in che modo invece se ne distaccò con decisione. La
sua critica alla tradizione musicale occidentale investiva
soprattutto l’aspetto costruttivo, linguistico, si trattava in
realtà del rifiuto che le funzioni sintattiche del sistema tonale
potessero avere ancora una qualche validità espressiva e fossero
ancora in grado di comunicare un pensiero musicale autentico: il
passato aveva messo a disposizione del compositore un apparato
tecnico-musicale ormai svuotato da qualsiasi contenuto di verità.
Il primo passo della rivoluzione schönberghiana fu la presa di
coscienza e la denuncia di questa saturazione, di questa crisi:
tuttavia il suo linguaggio è ben lontano dall’essere un
linguaggio di crisi, un linguaggio in cui si trascina
l’inaridimento espressivo di fine Ottocento, piuttosto Schönberg
e i suoi allievi mossero il tentativo lucidissimo di superare
quella stessa saturazione attraverso un necessario ribaltamento
dei fondamenti della tecnica compositiva che aveva retto per oltre
duecento anni i destini della musica. Dal punto di vista della
scrittura musicale lo strappo con la tradizione fu netto e, al di
là del “divieto della consonanza”, riassumibile in tre
aspetti fondamentali: 1) alla gerarchia dei rapporti tonali
regolati dalla relazione tonica-dominante Schönberg oppose una
dimensione della scrittura completamente libera da qualsiasi
vincolo di superiorità e di attrazione tra i singoli suoni,
proiettando la musica in una sorta di spazio swedenborghiano, in
una dimensione senza ordini, né categorie, né priorità; 2)
contro la prevalenza dell’articolarsi attraverso la melodia,
caratteristico della morfologia della frase nella musica
tradizionale, egli perfezionò una scrittura che recuperava la
pluralità del contrappunto antico restituendo spessore alla
totalità dello spettro sonoro e pregnanza alla condotta delle
diverse voci, creando in questo modo un autentico nuovo stile
polifonico; 3) infine, diversamente dalla logica della quadratura
della frase sulla quale si basava il linguaggio musicale
sette-ottocentesco, che ripeteva implicitamente il principio di
domanda e risposta mutuato dal linguaggio parlato, Schönberg
favorì un procedere più elusivo, asimmetrico, frammentario che
si potrebbe definire “dispari”, e che tuttavia era sostenuto
da una ferrea organizzazione formale.
Malgrado questa evidente frattura bisogna sottolineare che Schönberg si
sentiva quanto mai figlio di quella tradizione oggetto della sua
stessa critica. É noto che una volta congedato dal servizio
militare dopo la prima guerra mondiale dichiarò in modo
esplicito: “nella vita civile, non ho superiori: sono tutti
morti”, si riferiva evidentemente a Beethoven, Schubert, Wagner,
Brahms, eccetera, cioè a tutta la comunità ideale dei maestri
della tradizione musicale tedesca cui egli si sentiva
profondamente legato. In che modo allora Schönberg poteva
legittimamente dichiarare di appartenere a quella stessa comunità
avendone mandato in pensione la lingua e liquidato come inadeguati
i mezzi espressivi? Ciò è spiegabile se si tiene conto
dell’esistenza di una sfera di affinità più profonda che non
il condividere la superficiale oggettività della forma o del
sistema di relazioni armoniche del sistema tonale, ed è
precisamente ciò che i tedeschi chiamano Grundgestalt.
In tutta la grande musica classica dietro alla parvenza di ciò
che è direttamente percepibile vi sarebbe una struttura
fondamentale e fondante, determinata dalla forma esteriore e
sempre in relazione con essa, ma assai più caratterizzante lo
stile di un compositore o il carattere di una singola opera ed
agente in modo assai più immanente sulla sua conformazione e sul
suo significato. Naturalmente solo analisi approfondite possono
far emergere le più recondite unità intervallari [patterns]
che si ritrovano alla base di un quartetto di Haydn o di una
sonata di Beethoven, tuttavia l’ascolto, ad esempio, del quarto
movimento della Quarta Sinfonia di Brahms può essere illuminante per chiarire questo concetto dal momento che non è difficile comprendere che la
sequenza degli otto accordi iniziali costituiscono una sorta di
“a priori”, di idea preliminare che gioca un ruolo assai più
profondo e determinante per lo sviluppo della composizione
rispetto al semplice tema di un brano in forma-sonata o in forma
di variazione. La struttura fondamentale è in definitiva la
“sostanza” della musica, il principio primo cui si può far
risalire un brano e riconoscervi la configurazione originaria del
suo DNA. La grandezza della forza creativa di Schönberg (che era
eminentemente soggettiva) non fece altro che eseguire
un’oggettiva sentenza storica implicita nello stesso materiale
musicale, diede cioè valore alla struttura latente mettendo da
parte quella manifesta. Il rapporto di Schönberg con la
tradizione si chiarisce così non attraverso la difesa dei
principi formali e armonici più macroscopici dell’opera
simmetrico-estensiva (che egli invece rifiuta come inadeguati) ma
in virtù dello smascheramento dei modelli strutturali profondi
sui quali si sostiene la tradizione stessa, obbedendo così a
norme implicitamente contenute in tutta la musica occidentale dal
classicismo viennese al tardo romanticismo. Liquidandoli, Schönberg
mise finalmente in luce i più reconditi fondamenti costruttivi
del linguaggio musicale della tradizione e proprio a partire da
essi pose le basi per la nascita di un nuovo modo di pensare la
musica (Cfr.: Th. W. Adorno, Arnold Schönberg 1874-1951,
trad. it., in Prismi. Saggi sulla critica della cultura,
pp. 145-174)
Il principio sviluppato da Schönberg mediante l’individuazione
della tecnica dodecafonica non è altro che una delle possibili
configurazioni sistematiche di quel concetto di Grundgestalt
che, come si è visto, è fondamentale anche nella struttura
della musica del passato. Tuttavia, mentre nella musica classica
tradizionale questo principio può essere rinvenuto a posteriori,
cioè dopo un’analisi dell’opera, ed è spesso una qualità
implicita o addirittura inconscia del materiale stesso, nella
dodecafonia il soggetto interviene in modo assolutamente diretto e
intenzionale componendo “a priori”, attraverso la
predisposizione della serie, la costellazione di relazioni tra i
dodici suoni della scala cromatica che regolerà i caratteri
specifici di quella sola composizione e non di altre. Da questo
punto di vista il debito di Schönberg nei confronti di Brahms fu
di fatto assai più rilevante che non quello nei confronti di
Wagner. Certo, la suggestione wagneriana sulle generazioni
successive ebbe incidenze fortissime e Schönberg non fece certo
eccezione, lo dimostrano alcune opere importanti come i Gurrelieder
o il poema sinfonico Pelleas und Melisande: non a torto al cosiddetto “cromatismo tristaniano” è stata fatta risalire la prima prefigurazione della sospensione della tonalità messa in atto da Schönberg e
dalla sua scuola più di cinquant’anni dopo. Tuttavia spesso ci
si dimentica che Wagner si muoveva in ambito operistico e le sue
scelte armoniche più ardite ed il cromatismo assai spinto da lui
talvolta adottato erano dettati più da esigenze
drammatico-musicali che non da autentiche necessità di carattere
compositivo, il suo lavoro sul materiale era per così dire
finalizzato ad ottenere per prima cosa determinati effetti
drammatici. Diversamente, la grande sintesi brahmsiana tra forma
classica ed espressività romantica gettava la sua ombra ben al di
là della tanto nota quanto arida polemica tra formalisti e scuola
neotedesca che si accese in Germania nella seconda metà
dell’Ottocento. L’artigianato brahmsiano si rivolgeva ad un
ambito esclusivamente musicale, ed investiva il lavoro del
comporre in quanto elaborazione immanente sul materiale. La
portata capitale dell’opera di Brahms, del suo sforzo oggettivo
entro l’ambito ancora soggettivo del romanticismo, non sfuggì a
Schönberg che nel noto saggio Brahms
the progressive [“Brahms il progressista”], pubblicato in
inglese durante l’esilio americano, chiarì in modo esauriente
l’ascendenza brahmsiana di gran parte del suo processo
artistico: da Brahms egli ereditò infatti la tecnica della
“variazione in sviluppo”, il principio compositivo che deriva
dal concetto di Grundgestalt
ed anzi ne spiega il divenire ed il dispiegarsi nel vivo della
prassi compositiva. In molti tra i primi lavori di Schönberg si
può rinvenire la cifra inconfondibile di questa tecnica dal Quartetto
per archi op. 7 alla prima Kammersymphonie
op. 9. Quest’ultima, composta nel 1906, esemplifica la tecnica
della variazione in sviluppo attraverso una costruzione che (come
ha spiegato lo stesso Schönberg) evita l’idea di coerenza
desumibile dalle più evidenti somiglianze tematiche per cercare
una coerenza “di secondo grado”, più radicata nell’essenza
delle affinità intrinseche della materia musicale, che sono poi
rese udibili dai celebri accordi per quarte. Con la Kammersymphonie
inizierà anche quella “tendenza alla condensazione” che
caratterizzò gran parte dell’esperienza schönberghiana e fu
invece la cifra più evidente dell’opera del suo allievo Anton
Webern: la musica stessa pareva ritrarsi entro le sue strutture
fondamentali e trovarvi le regole per autodeterminarsi, quasi
identificandosi con esse in tutti i parametri fino ad allora
esplorati, evitando così di modellarsi sulla semanticità del
linguaggio parlato e, in maniera del tutto anti-wagneriana,
rinunciando alla pretesa di voler rappresentare contenuti
determinati. Rimandando a se stessa, e solo a se stessa,
cristallizzava la propria espressività e creava una dimensione
totalmente autonoma in cui tecnica, forma, contenuto ed
espressione si identificavano.
L’idea borghese di “musica assoluta” non è neppure un pallido
riflesso rispetto alla severità e alla tragicità della scelta
radicale operata da Schönberg. Si tratta anche in questo caso di
una prospettiva che possiede un valore dialettico, sintetizzando
un’esigenza di tipo poetico con una necessità di carattere
etico. Dietro alla critica della rappresentazione risiede l’idea
che la musica sia in grado di esprimere contenuti che possono
essere espressi solo attraverso di essa; ciò non significa
soltanto che il linguaggio musicale non coincide con quello
verbale, ma che esso è in grado di formulare una nuova regione
espressiva che è “altro” rispetto alla parola, all’immagine
e ai contenuti determinati, una regione cioè dove l’espressione
è costituita dall’assenza di espressione. Fu la coerenza con
questi principi a determinare in Schönberg l’esigenza di
elaborare una nuova sintassi musicale per nulla modellata sulle
simmetrie dialogiche del linguaggio come nel classicismo, né
sull’espressione di contenuti determinati come pretendeva
l’estetica wagneriana, né tanto meno sulla suggestione delle
immagini come indicava l’impressionismo, ma un linguaggio nuovo
che tendesse all’assoluto, dunque al silenzio, come mezzo
estremo di comunicazione e come strumento prof-etico.
Al complesso problema della rappresentazione del pensiero musicale,
dell’idea in sé, si può far risalire uno dei principi più
ricorrenti dell’attività artistica di Schönberg (dello Schönberg
compositore, ma anche dello Schönberg insegnante e teorico) per
capire il quale è necessario richiamare l’attenzione su un
altro aspetto che, insieme al suo controverso rapporto con la
tradizione, si può considerare altrettanto radicale e, anche in
questo caso, carico di sviluppi rivoluzionari. Si tratta cioè
dell’adesione di Schönberg alla religione ebraica,
un’adesione che non rimase semplice pratica di fede, ma che si
estese con conseguenze decisive anche al suo pensiero musicale
informandone il carattere e le scelte. Convertitosi in un primo
tempo al cattolicesimo, Schönberg si riavvicinò lentamente
all’ebraismo a partire dai primi anni Venti per riabbracciare
pubblicamente la sua antica religione a Parigi nel 1933. È
difficile stabilire fino a che punto il musicista abbia
determinato la scelta spirituale e fino a che punto la fede
ebraica abbia alimentato lo sviluppo della sua poetica musicale:
egli riconosceva nel pensiero ebraico la stessa tensione verso
quei principi assoluti che perseguiva attraverso la sua attività
musicale. In particolare intuì nella prescrizione che impone il
divieto di raffigurare l’immagine di Dio e di pronunciarne il
nome, un concetto in cui egli poteva identificare la sua stessa
ricerca in ambito artistico. Come per il nome di Dio, anche
l’arte moderna più autentica doveva guardarsi dalle immagini,
sfuggire alle determinazioni, impedire le contaminazioni. “Non
fabbricarti un’immagine!/Un’immagine delimita,/definisce,
racchiude,/ciò che deve restare/ illimitato, irraffigurabile”:
è il testo scritto dallo stesso Schönberg per il secondo dei 4
Volkslieder op. 27 composti nel 1925. La purezza dell’idea non
vuole contaminazioni: qualsiasi alterazione scalfisce l’integrità
del messaggio, così la verità si riduce a parvenza della verità
e l’arte a parvenza dell’arte.
Sarebbe tuttavia semplicistico ricondurre l’opera di Schönberg al solo
divieto, alla semplice determinazione di un apparato normativo
astratto, e di una visione del fare artistico puramente
speculativa tesa ad esaurirsi nel “refrigerio delle norme”. In
lui la tensione verso l’inesprimibile fu indivisibile dalla
ferma volontà di essere compreso, dal desiderio che la sua musica
parlasse al pubblico con la medesima forza della sua
organizzazione interna. Ma proprio qui risiede la lacerazione che
egli conobbe per l’intero arco della sua vita e che sembrò
riflettersi soprattutto nelle composizioni di carattere religioso
come l’oratorio incompiuto Die
Jakobsleiter [“La scala di Giacobbe”] e nella sua opera
forse più affascinante e densa di significati nella quale Schönberg
proiettò tutto il senso della sua missione artistica: Moses
und Aron, adattamento tratto dal Libro
dell’Esodo e composto poco prima della riconversione,
racconta della verità e della parola di Dio,
dell’incomprensione e dell’impossibilità di esprimere ciò
che non può essere espresso senza falsificazioni, ma anche della
necessità di esprimerlo. Nei personaggi di Mosè e Aronne Schönberg
trasferì insomma le ragioni più profonde della sua poetica e
della sua spiritualità. Mosè conosce la verità trasmessagli
direttamente dal Dio “unico, eterno, onnipresente, invisibile ed
irraffigurabile”, ma non è in grado di comunicarla al popolo.
Nella tradizione biblica Mosè era balbuziente, mentre
nell’opera di Schönberg il baritono che lo interpreta deve
cantare un durissimo Sprechgesang,
la tecnica introdotta vent’anni prima nel Pierrot
Lunaire che prescrive all’esecutore di seguire con esattezza
solo l’andamento ritmico della linea del canto, intonando invece
le altezze in modo volutamente impreciso: “la mia lingua è
impacciata: posso pensare, ma non parlare”, dice il protagonista
nella prima scena innanzi al roveto. Aronne invece non pensa ma parla, non può comprendere il verbo
divino, ma è la voce di Mosè perché il suo modo di esprimersi
lo rende comprensibile al popolo. L’interprete di Aronne è un
tenore lirico, il suo canto è spesso spiegato e vi si rinvengono
senza difficoltà significative reminiscenze tonali. Ad Aronne
spetta il compito di portare il messaggio di Dio al popolo senza
tradire l’assolutezza del verbo: egli tuttavia sa bene che ciò
non è possibile e alle intimazioni di Mosè che gli ricorda che
“nessuna immagine può dare un’immagine dell’irraffigurabile”,
egli risponde che “mai l’amore si stancherà di
raffigurarselo. Felice è un popolo che ama un simile Dio”.
Il solco è profondo, incolmabile: a questa dialettica aperta e mai
composta tra idea e rappresentazione si può dunque ricondurre
quello che potremo definire il “principio Schönberg” che è
poi sintetizzato in tutta la disperazione del grido di Mosè: “O
Wort, du Wort das mir fählt!” [O parola, parola che mi
manchi!] al termine del secondo atto del Moses
und Aron. Come è noto l’opera rimase incompiuta e questa
frase fu anche l’ultima musicata da Schönberg. Il terzo atto
vide la luce solo come libretto e, anche se nei diciotto anni che
gli restarono da vivere il compositore pensò più volte di
completarne la parte musicale, Moses
und Aron rimase incompiuta: evidentemente nell’epoca moderna
la compiutezza non si addice più ai capolavori. La frattura tra
idea e rappresentazione non può e non deve essere composta, viene
lasciata irrisolta e l’opera resta allo stato di frammento,
aperta a molteplici conclusioni: rimane l’impossibilità di
esprimere ed il dolore per ciò che resta inespresso. E proprio
questo fallimento, l’arrendersi innanzi all’impossibilità di
una conciliazione rende la figura di Schönberg, oggi, più viva e
attuale che mai. Con la rinuncia egli ha aperto molti più cammini
per la musica moderna di quanti ne potesse prevedere il giovane
Boulez cinquant’anni fa. Senza la serialità “parziale”
della dodecafonia, non ci sarebbe stato nemmeno il “serialismo
integrale” sviluppatosi intorno a Darmstadt nel dopoguerra, e
neppure l’idea della proliferazione spontanea dell’opera tanto
cara proprio a Boulez. Parlare di modernità di Schönberg è
dunque superfluo. Moderno è anzitutto, al di là del concepimento
della dodecafonia, il suo modo di pensare la musica in quanto ciò
che vi è di realmente significativo nel procedere compositivo di
Schönberg non risiede tanto nella tecnica utilizzata ma nella
grande forza soggettiva del suo impulso creativo, organizzativo
che, in virtù di una rara consapevolezza etica, storica e
artistica diviene oggettivo, autentico. Certo è che di tutto si
può accusare Schönberg tranne che di essersi lasciato irretire
dal “feticismo del materiale”, cosa che invece è accaduta a
molti compositori della seconda metà del Novecento. In una
lettera a Rudolf Kolisch si trova un’espressione quanto mai
chiarificatrice in questo senso: “le mie non sono composizioni dodecafoniche,
ma composizioni dodecafoniche” e, più avanti: “l’unica analisi
che ritengo degna è quella che mette in evidenza il pensiero,
mostrando il modo in cui viene esposto e sviluppato”. La tecnica
è dunque solo un mezzo per esprimere l’idea non il fine del
lavoro del comporre anzi, l’opera compiuta può essere vista
come una sorta di trascrizione del pensiero, una sua necessaria
determinazione ma non è il pensiero musicale “in sé”. È
questa l’utopia schönberghiana, la sua risposta al rinnovarsi
di una ferita aperta e persistente in tutta la storia della musica
occidentale, almeno negli ultimi trecento anni. É il problema
della musica come linguaggio, di ciò che può esprimere e del suo
rapporto con la determinatezza: egli non fa altro che trasferire
la tradizionale dicotomia tra forma e contenuto in una più alta
sfera della conoscenza, quella tra idea e rappresentazione o, per
dirla in termini ontologici, tra essere e linguaggio.
Resta l’immagine utopica del compito di esprimere l’inesprimibile,
di camminare verso un assoluto irraggiungibile ed irraffigurabile:
e questo è anche il segno più evidente dell’attualità di Schönberg,
poiché il suo messaggio oggi sembra aprirsi ad una dimensione
nuova che investe non solo la sfera del comporre ma anche
dell’interpretare, del capire e dell’ascoltare la musica.
Siamo di fronte cioè ad una poetica dell’impegno che non vuole
abbandonare l’oggetto musicale alle categorie del mondo
amministrato ma rivendica per sé ciò che Hegel chiamava “la
fatica del concetto”. In particolare nell’opera di Schönberg
pare prefigurarsi una dimensione dell’ascolto finalmente in
grado di dare ragione alla profondità del pensiero musicale che
si rivolge ad una ideale “comunità di ascoltatori” in grado
di riconoscere il senso della sua fatica: egli chiede loro
altrettanta fatica. Il baricentro del significato della musica
oggi, si sposta così dal comporre al ri-comporre da parte
dell’ascoltatore al quale è richiesto uno sforzo del tutto
nuovo rispetto alla fruizione dei capolavori del passato: “la
musica di Schönberg tratta l’ascoltatore con tutti gli onori
non concedendogli nulla” (Th. W. Adorno, op. cit., p. 152).
Chi fruisce della nuova musica entra in
contatto con un mondo che non promette mai la sicurezza di ciò
che viene dopo ed impone un’attenzione attiva per tutti i
fenomeni che si sviluppano nell’opera, essa “esige che
l’ascoltatore segua spontaneamente il divenire compositivo del
suo moto interiore, e pretende da lui piuttosto prassi invece che
mera contemplatività” (Th. W. Adorno, op. cit., p.146).
È probabile che il tempo di Schönberg sia
venuto, eppure sembra esserlo in un modo del tutto paradossale e
diverso da come lui stesso si sarebbe aspettato quando
profetizzava che la sua musica sarebbe stata apprezzata solo dopo
la propria morte. Evidentemente prefigurava un mondo dove le sue
opere fossero divenute popolari come quelle di Mozart e di
Beethoven, non avrebbe mai scommesso che, al contrario, in un
mondo così omologato e idiota come questo sono le opere di Mozart
e di Beethoven che stanno per diventare impopolari come le sue.
Tutta la musica, e non solo la “nuova musica”, diventa giorno
per giorno sempre più sola, terra abbandonata che risuona nel
vuoto o solo per quei pochi che vogliono ancora ascoltare e
lasciarsi dire qualcosa di autentico, essa è davvero – come
suggerisce l’immagine adorniana che conclude il primo capitolo
di “Filosofia della musica moderna” – il “manoscritto
nella bottiglia”.
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